Ci sono ancora tanti equivoci in materia di sostenibilità con oltre 500 ecolabel e poche direttive comuni. In questa intervista a Federico Brugnoli cerchiamo di fare chiarezza

Seconda industria più inquinante al mondo, dopo il petrolchimico, per la moda è scoccata l’ora di mettersi in regola in termini di sostenibilità e rispetto dell’ambiente. Vale per l’abbigliamento come per le calzature e ogni altro settore del sistema moda. Ma l’argomento è complesso e riguarda una evoluzione-rivoluzione a 360 gradi che coinvolge tutte le fasi della value chain e non solo il prodotto, step finale di un percorso che non può prescindere dalla sostenibilità ambientale, sociale e di processo, che comporta anche le certificazioni. Abbiamo cercato di fare chiarezza sull’argomento con Federico Brugnoli, laureato in Scienze Ambientali e fondatore di Spin360, azienda specializzata nello sviluppo di nuovi modelli di business sostenibili e soluzioni innovative dal punto di vista tecnologico e organizzativo. Curatore del format MicamX e impegnato nel progetto di Assocalzaturifici VCS-Verified and Certified Steps, il marchio di certificazione per i prodotti e i servizi delle aziende del mondo della calzatura, è Direttore Scientifico del Master in “Fashion Sustainability and Industry Evolution” dell’ Accademia Costume & Moda,  presso la sede di Milano.

Cosa vuol dire sostenibilità nella moda?

E’ uno dei più importanti argomenti da affrontare per l’umanità. E’ un problema complesso, basato sulla scienza e crediamo che non sia compreso dalla maggior parte dei consumatori. La sostenibilità può essere misurata e la tendenza in atto è quella di collegare il tema della sostenibilità con la comunicazione, cosa che noi non riteniamo corretta perché l’industria deve affrontare il tema con pragmatismo e con progetti di ampio respiro. Se andiamo alla definizione storica, per sviluppo sostenibile si intende il soddisfare i fabbisogni del presente senza compromettere quelli del futuro. Si rappresenta la sostenibilità come il punto di incontro di tre sfere di interesse dell’umanità: gli interessi economici, ambientali e sociali. Questo a livello generale, perché ormai è un concetto vecchio essendo stato per la prima volta introdotto nell’ambito delle Nazioni Unite nel 1987 dall’allora primo ministro norvegese Gro Harlem Brundtland che presentò il report Our Common Future. Da allora sul tema della sostenibilità si è detto di tutto. Oggi, in assenza di una definizione precisa di cosa sia la sostenibilità si rischia di confondere il mercato.

Perché per la moda la sostenibilità è diventata così importante?

La sostenibilità nella moda è diventata importante negli ultimi anni per varie ragioni. La prima riguarda alcuni studi secondo i quali la moda, dopo il petrolchimico, è la seconda industria più inquinante al mondo perché i materiali sia di origine naturale che sintetica, nelle varie fasi di trasformazione, hanno un impatto sull’ambiente. Questo tema ha avuto un forte impatto mediatico ed è stato oggetto di campagne aggressive da parte di organizzazioni non governative, es Green Peace, che hanno attaccato alcuni protagonisti della moda con l’obiettivo di avere molta risonanza. Quindi la moda si è organizzata con associazioni specifiche per affrontare il tema della sostenibilità, come la Sustainable Apparel Coalition o il programma ZDHC che si occupa della chimica pulita e sostenibile.

Come si può definire il termine sostenibilità?

Non c’è una definizione univoca per sostenibilità nel mondo della moda. Sicuramente significa avere a che fare con alcuni principi di carattere generale come le produzioni pulite con assenza o massima limitazione di agenti inquinanti, con la tracciabilità delle materie prime, con l’economia circolare, con l’upcycling. Il nostro approccio ottimizzato alla sostenibilità, ed è il principio su cui si basa VCS-Verified and Certified Steps, è di natura olistica. Vale a dire che la sostenibilità è qualcosa che non può sottovalutare alcuni temi fondamentali: protezione dell’ambiente nelle diverse sfaccettature, filiere sicure dal punto di vista dei diritti umani, salute e sicurezza dei lavoratori, protezione dei consumatori con prodotti moda privi di sostanze dannose, competizione leale, tema questo legato alla contraffazione.

L'industria deve affrontare il tema con pragmatismo, con progetti di ampio respiro e un approccio olistico

Come si sta muovendo la moda?

La moda si è mossa con iniziative generali come il Fashion Pact dove i grandi brand hanno sottoscritto un documento che si occupa di temi quali il cambiamento climatico. E’ vero però che i grandi brand, cioè i clienti del settore calzaturiero italiano, hanno definito cosa significa per loro sostenibilità e le definizioni sono tutte più o meno in linea con i macro argomenti, ma ognuna differisce un po’ dall’altra. Quindi noi stiamo cercando di proporre un approccio che comprenda tutti gli argomenti affinchè le aziende possano avere sotto controllo tutto ciò che può essere definito come sostenibile.

C’è però ancora molta confusione. Più per le aziende o per il consumatore?

Gli inglesi dicono che la sostenibilità è industry driven cioè guidata dall’industria. Faccio fatica a credere che la stragrande maggioranza dei consumatori sia così sensibile al tema della sostenibilità. Ciò nondimeno, è vero che le aziende non possono non essere sostenibili. Al di là di una nicchia di consumatori consapevoli e informati, credo sia ancora difficile che un consumatore entri in negozio, sia fisico che digitale, e si informi sulle caratteristiche sostenibili di un prodotto. E’ vero però che se un grande brand della moda fosse colto in flagrante su pratiche non sostenibile, correrebbe un elevato rischio reputazionale.

Quali sono gli equivoci più comuni quando si parla di sostenibilità?

Senza fare nomi, le cito l’esempio di un grande brand retail che ha fatto una linea specifica definita sostenibile e molto comunicata per questi aspetti che la rendevano diversa dal resto della produzione. Il problema era però che proprio il resto della produzione continuava a essere come prima. Quindi uno dei più grandi equivoci è che se si attiva un meccanismo di comunicazione mirata, anche tutto il resto deve essere allineato. A volte si focalizza una linea o un prodotto su un tema specifico, come possono essere i materiali provenienti da agricoltura rigenerativa, ma poi non si tengono sotto controllo tutti quei temi a cui ho accennato.

Ci sono delle linee guida comuni per il settore moda, visto che esistono tante differenti ecolabel?

Infatti ce ne sono troppe. Ad esempio, ecolabelindex.com  ha mappato più di 500 diverse certificazioni di sostenibilità. Lo spirito del progetto VCS Verified and Certifies Steps, che stiamo portando avanti con Assocalzaturifici, non vuole essere una ulteriore certificazione, ma vuole mettere a valore le certificazioni esistenti perché ognuna di queste copre una specifica area della sostenibilità, ad esempio la ISO 14000 che si focalizza sulla protezione ambientale o la SA 8000 che si occupa di diritti umani e la ISO 45000 di salute e sicurezza dei lavoratori. Quindi andiamo a fare una mappa olistica della sostenibilità che non tralascia nulla per mettere in grado le aziende di fare scelte appropriate anche sommando uno o più schemi di certificazione esistenti. Per spiegare meglio: abbiamo un elenco di circa 160 requisiti, abbiamo preso le certificazioni più serie che sono all’interno di ambiti accreditati e abbiamo mappato dove queste certificazioni vanno ad agire, così che un’azienda possa coprire una percentuale alta di requisiti di sostenibilità, che poi sono gli stessi che i clienti chiedono alle aziende. Vogliamo cioè creare un meccanismo di ottimizzazione in modo che le aziende si facciano trovare pronte e possano rispondere in modo efficiente alle verifiche richieste dai brand loro clienti.

Come si possono quindi riassume gli step di questo percorso verso la sostenibilità?

La sostenibilità deve essere sia all’interno dell’azienda che lungo la filiera produttiva. Il nostro metodo riguarda al momento i fornitori di primo livello che a loro volta possono farlo con i loro fornitori in un’ottica, appunto, di filiera. I passaggi che un’azienda deve fare sono: una attenta autovalutazione, sapere da dove partire, capire il gap da colmare attraverso pianificazione di azioni di miglioramento. Quindi autovalutazione, pianificazione e attuazione di azioni di miglioramento. Nell’autovalutazione bisogna tener presente il paese in cui si opera, ad es in Italia alcuni temi legati alla sfera della sostenibilità sono già regolamentati per legge (salute e diritti dei lavoratori). L’azienda deve avere dei codici di condotta e sistemi di organizzazione aziendale che tengono già conto di questi elementi di sostenibilità e poi il processo di formazione e di trasferimento al personale di tali regole. Ultimo elemento è quello dei controlli che hanno a che fare con il grande tema delle certificazioni.

Quali sono i costi della sostenibilità e questi finiranno per riversarsi sui consumatori attraverso  i costi del prodotto?

Spesso produrre in maniera sostenibile non per forza significa produrre a un costo più alto. Faccio riferimento a questa disciplina, in cui noi siamo esperti, del life cycle assessment cioè dell’analisi del ciclo di vita che dimostra come ci sia una correlazione fra gli impatti ambientali generati nella produzione di un prodotto e i costi. Produrre consumando più energia, più acqua , prodotti chimici con trasporti globali ha un impatto ambientale più alto e ovviamente  un costo più alto. Quindi sfaterei il mito del produrre sostenibile uguale produrre a costi più alti. E’ evidente che ci sono filiere o paesi che hanno maggiori garanzie dal punto di vista della sostenibilità ma hanno un costo del lavoro più alto. Sappiamo che una parte della moda, soprattutto il fast fashion, ha fatto una grande corsa all’offshoring e ora stiamo assistendo per fortuna a un reshoring per le fasce medio alte del mercato che coinvolgono anche il settore calzaturiero.

Flavia Colli Franzone