Ci vogliono anche quattro giorni per fare un singolo paio

Dalla sua piccola bottega, a Pieve a Nievole, in provincia di Pistoia, Lucio Picone ha conquistato il mondo. Le sue scarpe, rigorosamente fatte a mano, su misura, una a una, sono ai piedi di manager, avvocati, attori, sportivi, chef di tutto il mondo. Basta puntare il dito su un paese qualsiasi, dell’Europa e non solo, e lì c’è di sicuro un paio di calzature realizzate da questo artigiano che ha alle spalle una lunga gavetta e che si commuove ancora quando racconta i suoi inizi.

Noi di Italian Shoes l’abbiamo incontrato durante l’ultima edizione di Micam — Picone era lì col suo banchetto da lavoro a mostrare le sue abilità — e l’abbiamo intervistato.

Quando lavoravo in un calzaturificio chiedevo al principale di poter rimanere in azienda, la sera, a imparare qualcosa di nuovo, fino a saper fare la scarpa completa.

Come ha iniziato?

Sono originario di Frasso Telesino, un paesino in provincia di Benevento, nel sud della Campania. Sono nato nel ’60, e all’epoca era un posto molto umile. Io stesso vengo da una famiglia contadina. Mia madre lavorava la terra e mio padre, per portare qualche soldo in più a casa, andava a lavorare in Svizzera.
Avevamo dei parenti a in Toscana, a Monsummano Terme, vicino Pistoia, al centro di uno dei più importanti distretti calzaturieri italiani. Lì c’era molto lavoro e loro ci consigliarono di trasferirci. Era il 1970 e avevo 10 anni. A 15 ho cominciato a lavorare in un calzaturificio — Morini Renzo — e sono rimasto lì per 30 anni.

Come mai ha poi deciso di mettersi in proprio?

In quei 30 anni ho imparato molto, tutte le fasi della produzione di una scarpa. È un mestiere che ho amato molto. Studiavo quello che facevano gli operai più anziani. Non ero tra quelli che non vedevano l’ora di andare a casa: addirittura chiedevo al principale di poter rimanere in azienda, la sera, a imparare qualcosa di nuovo, fino a saper fare la scarpa completa.

Era una vocazione.

Esatto. A un certo punto sono diventato responsabile di reparto. Poi è scattata una molla, mi sono reso conto che volevo qualcos’altro e a 45 anni mi sono licenziato.
In molti mi hanno dato del pazzo, perché guadagnavo bene, avevo un incarico di responsabilità, ma volevo fare la mia strada, volevo fare l’artigiano, volevo fare le calzature interamente a mano, su misura.
Avevo come “stella guida” quella di Salvatore Ferragamo. Certo, so benissimo di non essere un Ferragamo ma anche lui era campano, anche lui aveva fatto una lunga gavetta.

Dalla calzatura industriale a quella artigianale c’è un bel salto.

Ho avuto la fortuna di avere un grande maestro, Tobaldo Bruno, detto Johnny. Ora ha 81 anni, all’epoca era appena andato in pensione e aveva visto questa forte volontà che avevo. È stato lui ad avermi fatto fare il salto di qualità, insegnandomi tecniche come la cucitura Goodyear, la cucitura norvegese.

Ho clienti in tutto il mondo: Stati Uniti, Europa, Russia, Oriente. Un sarto di Londra manda da me i clienti che vogliono scarpe su misura.

Chi è il suo cliente tipico?

Ho una clientela di alto livello: avvocati, medici, dirigenti.
E molti personaggi famosi, come lo chef Gianfranco Vissani, che ormai è un amico e che mi ha portato a Linea Verde. Poi al calciatore Fabio Galante, a Marcello Lippi quando è stato allenatore dell’Italia campione del mondo, a Fabrizio Frizzi, Cristiana Capotondi, Massimo D’Alema, Fausto Bertinotti.
Ho clienti in tutto il mondo: Stati Uniti, Europa, Russia, Oriente. Un sarto di Londra manda da me i clienti che vogliono scarpe su misura.

I clienti esteri vengono da lei o prende commissioni anche a distanza?

No, vengono tutti in negozio. Perché devo prendere le misure del piede, creare la forma in base alle esigenze del cliente, fare il modello, fare la prova…
Anche per quanto riguarda i colori: dal pellame crust faccio i colori a mano, creando le varie sfumature con anilina e crema. I materiali sono tutti di primissima qualità, e li scelgo personalmente.
Quando arriva un cliente ci mettiamo lì e cerchiamo di capire cosa sta cercando e cos’è il meglio per lui. Anche qualora volesse qualcosa che vede in vetrina, possiamo rivoluzionarlo, anche nel disegno.

Bisogna essere anche un po’ “psicologi”.

Sì, di solito ricevo su appuntamento in modo tale da dare al cliente tutto il mio tempo e la mia attenzione. Al di là del fatto se poi comprano o no, io mi prendo cura di loro, li “coccolo”. Ho il mio banchetto in negozio e vedono anche come lavoro.

In pratica la cosiddetta “esperienza” è una parte importante del lavoro.
Quanto tempo impiega per ogni paio?

Il tempo dipende dalla lavorazione. Anche quattro giorni.

Lei ha inventato una variante della lavorazione norvegese. L’ha anche brevettata?

Sì, avevo del mignon di pelle e ho pensato di intrecciarlo al filo bianco per dare un effetto particolare. Non mi interessa brevettarla perché chi la sa fare, la faccia. È come per un pittore: un pittore non si copia, ognuno ha la sua mano.

Un artigiano delle calzature è come un pittore: un pittore non si copia, ognuno ha la sua mano.

C’è qualcuno in famiglia che porterà avanti l’attività?

Purtroppo no. Ho una figlia di 25 anni che però ha altri progetti. Io ora sono in pensione ma continuo l’attività perché, appunto, è una vocazione. Quando mi alzo la mattina io non vado a lavorare, vado a divertirmi.
Sto lottando molto per avere la possibilità di insegnare e, come io ho imparato, mettere la mia esperienza e le mie conoscenze a disposizione di qualcun altro. Sarebbe un peccato che un sapere artigianale come questo andasse perduto. Siamo noi artigiani che abbiamo dato lustro al Made in Italy.