Naturale o riciclato? Cosa fare per essere più sostenibili? Quali le innovazioni più interessanti? Ce lo spiega Anna Pellizzari di Materially
[In cover: Ohoskin, materiale con contenuto derivato da scarti di arancia e cactus – Courtesy Ohoskin Srl]
Il percorso verso la moda responsabile, e quindi anche gli accessori, è ancora tutto in salita, una corsa a ostacoli che prevede di superare vari step per arrivare alla sostenibilità a 360 gradi. Uno di questi riguarda i materiali e per fare chiarezza ne parliamo con Anna Pellizzari, direttrice esecutiva e parte del team di ricerca di Materially. La società aiuta le imprese nello sviluppo e nella diffusione dell’innovazione e della sostenibilità a partire dai materiali con un approccio design-oriented e un’attenzione ai temi della circular economy e dell’innovazione intelligente.
Il materiale è la componente primaria di un prodotto sostenibile?
Sì, purché sia usato in modo intelligente. Nel settore della calzatura è più complicato perché la scarpa per sua natura è un oggetto complesso, fatto di tante componenti in materiali diversi, ognuna con una propria funzione e spesso non intercambiabili con altri.
Possiamo ragionare sotto 2 punti di vista.
1.Sostenibilità intrinseca del materiale che riguarda la materia prima, la sua tipologia e da dove viene e i processi di trasformazione. Quindi l’azienda deve ragionare in termini di LCA (life-cycle assessment) del materiale che permette di quantificare i potenziali impatti sull’ambiente e sulla salute. Nel mondo delle finte pelli, ad esempio, ci sono prodotti di origine petrolchimica e prodotti con contenuto più naturale derivanti dagli scarti alimentari (vinaccioli, mele, arance, ecc). Ma in entrambi i casi ciò che va valutata è la carbon footprint, che comprende anche l’energia impiegata nel processo produttivo.
2.Sostenibilità di processo; oggi le aziende nel processo produttivo si stanno orientando alla riduzione di sostanze chimiche con potenziale di rischio, quali ad esempio solventi o fluorurati usati per trattamenti idrorepellenti. A questo contribuiscono anche le normative, sempre più restrittive in materia, che vengono anticipate da alcune aziende che da subito si orientano verso soluzioni più sostenibili.
Si sente spesso parlare di contenuto “naturale” oppure “riciclato”: cosa è meglio?
Ridurre nelle materie prime le componenti di origine petrolchimica propendendo verso quelle di origini più naturali, quindi tutto il mondo del bio-based, è senz’altro una buona scelta, Tuttavia in certi prodotti, tra cui le calzature, per motivi di prestazione è difficile eliminare completamente i polimeri e quindi si può scegliere la strada del riciclo (es Adidas sta eliminando nell’abbigliamento il poliestere vergine, nelle calzature ricicla materie plastiche provenienti dall’oceano e sta pianificando una calzatura solo in poliuretano puntando sul monomateriale con l’idea che poi la scarpa si possa riciclare davvero). Le due cose, poi, non si escludono!
Quindi si deve eliminare la plastica?
Non sono molto d’accordo su questa demonizzazione assoluta della plastica. Per certi usi è insostituibile, si può cercare di produrla meglio e gestirla meglio, ma ci vorrà tempo per rimpiazzarla completamente. Non tutti i materiali possono essere al 100% naturali, perché molti necessitano di una componente di polimero per fornire le necessarie prestazioni. Anche se certe plastiche si possono creare a partire da monomeri di origine vegetale e non petrolchimica. Certo, cambiano i costi.
Cosa deve fare un’azienda per perseguire la strada della sostenibilità?
Si può muovere in tre direzioni: 1) una fase progettuale che guarda al prodotto pensando cosa succederà alla fine e su questa base si scelgono i materiali da usare. Se si vuole fare un prodotto con una durevolezza maggiore allora si possono usare materiali più durevoli magari impattano di più all’origine però sono spalmati su un tempo più lungo; ad esempio, la compostabilità ha senso solo in prodotti con vita breve, mentre per prodotti con vita lunga è meglio ragionare in termini di riciclo; 2) ragionare in ottica di carbon footprint dell’azienda e di conseguenza del prodotto 3) ragionare in termini di naturalità del materiale e quindi di una graduale riduzione delle componenti petrolchimiche nei vari passaggi di trasformazione (tintura, finissaggio, ecc.)
Anna Pellizzari
Materially si occupa di queste soluzioni?
Sì. Materially si rivolge alle aziende che vogliono operare la transizione ecologica per ridurre l’impatto ambientale andando a individuare non solo i fornitori di materiali sostenibili, ma anche le scelte migliori da fare. Si rivolgono a noi aziende orientate all’innovazione, o che cercano soluzioni per un problema produttivo. Ma anche aziende che hanno inventato nuovi materiali ai quali vogliono dare una destinazione; Materially li aiuta a trovare nuovi ambiti applicativi e a connetterli con gli interlocutori giusti.
Poiché Materially fa anche eventi divulgativi, come i video realizzati per Mido dove si parla di tendenze e nuovi materiali per gli occhiali, qual è oggi la sensibilità del consumatore sull’argomento?
Spiegare queste cose è molto complicato perché c’è molta confusione, anche nei media. Ad esempio, si confondono spesso i temi dell’inquinamento, che è un fenomeno locale, con quelli del global warming, che è, appunto, globale: sono però due cose diverse.
Io comunque sono ottimista, perché vedo a livello macro industriale un interesse e uno stimolo a modificare i processi produttivi anche da parte di aziende molto grandi. Inoltre la sensibilità da parte dei consumatori è in deciso aumento. Il mio consiglio è quello di far durare di più i prodotti, scegliere la qualità e non il fast fashion, chiedere informazioni sull’origine delle materie prime e non accontentarsi di slogan vaghi.
Qualche innovazione interessante da segnalare?
Ci sono interessanti sviluppi nei materiali che provengono da scarti agroalimentari, anche se si tratta di una nicchia molto esigua di prodotti. Un altro mondo con un approccio originale è quello legato ai funghi per i materiali alternativi alla pelle. Ci sono nel mondo alcune aziende che ci stanno lavorando da tempo, fra cui l’italiana Mogu, più concentrata sul settore dell’arredo, e poi c’è Modern Meadow che produce pelle coltivata in laboratorio, con processi simili a quelli impiegati nel settore medicale o alimentare. Si tratta di innovazioni disruptive, ma anche l’innovazione incrementale per migliorare processi esistenti è importante e va premiata. Tutto può contribuire ad un cambio di paradigma produttivo.

ReBlend-cotone riciclato

Polimeri riciclati a partire da plastiche recuperate dagli oceani